13/11/2020

Tempo di lettura: 4 min

Michele e le resistenze al cambiamento…degli altri.

Questo mese vi raccontiamo un altro caso di counseling, dopo quello di Carla di qualche post fa e che potete rileggere qui. E’ la volta di Michele, ovviamente un nome di fantasia, manager in azienda che si rivolge a noi per problemi con il proprio team e i cambiamenti che sta introducendo nell’azienda dove lavora.

Michele è un top manager, uomo di 50 anni con una lunga carriera alle spalle che nell’ultimo periodo avverte un po’ di stanchezza tanto da spingerlo a richiedere un aiuto esterno. Si affida quindi ad un servizio di counseling: è venuto a conoscenza di questa attività proprio leggendo un opuscolo in una bacheca di un’altra azienda che stava visitando. Dice che si è sentito chiamato e ha deciso di fissare un incontro. Prova stanchezza Michele perché sta vivendo un periodo particolarmente intenso al lavoro. Incontra, infatti, diverse difficoltà e resistenze ai cambiamenti che sta introducendo all’interno dell’organizzazione dove lavora. Più persone sembrano “mettersi di traverso” ed essere ostative. Ciò gli crea una sensazione sgradevole, di fastidio che lo rende nervoso nelle relazioni. E la cosa non lo soddisfa.

Chiede quindi l’aiuto del counselor perché vuole capire dove sbaglia, perché le personenon lo seguono nel cambiamento.

Inizialmente Michele descrive l’ambiente di lavoro in cui si trova ad operare, caratterizzato da persone di basso livello culturale, un po’ grezze e quasi animalesche (sono sue parole). Racconta, su invito del counselor, di alcuni precisi e chiari episodi in cui le persone, soprattutto un collega con cui si trova spesso a lavorare, fanno di tutto per mettergli i bastoni tra le ruote. E del ruminamento (anche questa è una sua definizione) che prova, portandosi le mani sulla pancia, ogni volta che qualcuno interviene dicendo “no, questo nonsi può fare”, “questo non funziona qui…” ecc.

La situazione è frustrante effettivamente: lo riconosciamo anche in sede di colloquio. Ma dopo un’attenta analisi e grazie alle domande che facciamo, si scopre ben presto che Michele tende ad interpretare le reazioni di colleghi e collaboratori sempre dal proprio punto di vista…”ma é capitato anche a me e ho reagito così…”, “ma é una promozione (quando trova che un suo collaboratore non sia contento delle nuove responsabilità…)”, “mase non ti trovi bene allora datti da fare per provare altro come ho fatto io (di fronte alle lamentele…)” ecc.

Questo suo atteggiamento è visibile sempre: Michele conosce solo una verità, la sua. Dichiara di non avere problemi con altre tipologie di colleghi o collaboratori e usa questa lettura come la prova che sono gli altri, quelli che non lo seguono, il problema. Scopriamo però che Michele non ha problemi con alcuni suoi collaboratori solo perché questi la pensano esattamente come lui, “sono come me”.

Facile gestire persone quando queste ti seguono, vero? Il lavoro che abbiamo fatto insieme a Michele è stato proprio quello di ampliare il proprio punto di vista e provare a capire che cosa prova l’altro, qual è la sua situazione, quali sono i suoi bisogni e di conseguenza le motivazioni.

Lavoro non facile, soprattutto per Michele, uomo tutto d’un pezzo, abituato a comandare, afare ciò che si deve fare, a tirare dritto.

E che ha avuto un punto di svolta quando abbiamo rinegoziato il suo obiettivo: non è più importante capire “perché le persone non lo seguono nel cambiamento”, ma imparare a gestire le proprie emozioni (rabbia, frustrazione, fastidio) che le reazioni inaspettate provocano in lui.

Michele comprende che il vero problema è che non accetta il “ritmo” diverso delle persone. Le persone che lui reputa lente nel dare risposte, nell’accettare i cambiamenti o semplicemente nel reagire con tempi diversi dai suoi lo infastidiscono fino a farlo reagire d’impulso e con rabbia ingiustificata. Lo guidiamo a questa consapevolezza con due esercizi. In alcuni momenti durante la conversazione, “stressiamo” la lentezza dei nostri movimenti, il ritmo delle parole, il prolungamento dei silenzi per fargli capire esattamente quando gli scattano fastidio e rabbia e quali sono le sue reazioni, portando poi allo stesso ritmo -come in una danza- i “tempi” suoi e dell’interlocutore. Una palestra per fargli provare come si possa comunicare in sintonia. Ci accorgiamo poi che Michele “confonde” i comportamenti con l’identità di una persona (una persona lenta nel rispondere è disinteressata, è demotivata; una persona che non dà suggerimenti all’azienda è stupida) e quindi andiamo a ridefinire una nuova cornice: una persona lenta è riflessiva e la riflessività può essere utile per prendere decisioni più ponderate e non istintive.

Lentamente Michele impara e cambia comportamento. Dichiara che ha imparato a contarefino a 10 e che ha scoperto che le persone si esprimono, danno suggerimenti niente affattostupidi e che migliora anche il lavoro di team.

Abbiamo attivato una risorsa…che è poi l’attività principale del Counselor.

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