16/11/2020

Tempo di lettura: 3 min

Risonanza ed empatia per il counselor. Quando “il è successo anche a me” può essere un problema

Quante volte può capitare durante un colloquio di counseling che il cliente ci raccontiqualcosa che è capitato anche a noi e che ci risuoni?

Oggi parliamo proprio di questo e delle accortezze che dobbiamo adottare.

 

Setting: colloquio di counseling. Il counselor è concentrato sul cliente e su ciò che sta ascoltando. Ad un certo punto qualcosa attira maggiormente la sua attenzione…Una frase, una descrizione, un’emozione e il counselor si trova a pensare: “cavolo, è successo anche a me”. E si immedesima. Certo, deve essere empatico! E’ il suo lavoro. Ma non è la stessa cosa. La risonanza non è empatia e può essere un terreno minato. Ecco perché richiede unlavoro da parte del counselor e una cura diversa.

 

Può succedere, infatti, che indentificarsi nei vissuti dell’altro crei una condizione che allontana il professionista da una posizione di piena e rigorosa empatia ad un coinvolgimento (e identificazione) “cieco”. Può succedere che il counselor inizi a fare domande o conduca il colloquio o il percorso come se ci fosse lui dall’altra parte, non facendo, quindi, un buon lavoro.

 

La stabilità emotiva del counselor è imprescindibile per la buona riuscita del percorso. E’ per questo che il counselor nel suo rispecchiamento con il cliente deve SEMPRE essere in contatto anche con se stesso per poter comprendere quanto può sostare e gestire con sufficiente efficacia e sicurezza il vissuto portato dal cliente e quanto invece mette a rischiola sua funzione di professionista. Il counselor infatti deve saper gestire la risonanza mantenendo sempre il suo ruolo di interlocutore aperto, partecipativo, caldo ma neutro e protetto maturando un rigore attento e un moderato distacco.

Sì, non dobbiamo incappare nell’errore che “allora non siamo empatici”, che allora non stiamo aiutando il nostro cliente. E’ vero che il cliente è al centro della nostra relazione, ma in quella relazione ci siamo anche noi e dobbiamo prenderci cura anche di noi.

Quindi come fare?

Lo diciamo spesso: il colloquio di counseling, come qualsiasi relazione, è paragonabile ad una danza, ad un “balletto” che i due interlocutori devono saper danzare. Ma il counselor, in quanto professionista della relazione d’aiuto, non deve mai perdere il contatto con se stesso: deve saper contare i passi, conoscere la coreografia, sapere quando è il momento di fermare la musica e di prendere una pausa, deve condurre la danza verso la direzione utile per il cliente e non per se stesso. Ecco perché supervisione e lavoro su di sé sono un aiuto e un supporto che il counselor deve mantenere nel tempo.

Prendersi cura di questo aspetto, d’altra parte, significa riconoscersi dentro un profilo diefficienza ed onestà deontologica e professionale, requisiti necessari per formarsi comeoperatori capaci e responsabili. 

Solo così quel “è successo anche a me” può essere gestito e non diventare un “è successo anche a me e l’ho risolto così”, oppure “e non ne sono mai uscito, consoliamoci a vicenda”, due atteggiamenti che sappiamo non essere professionali e utili per il counselor e men che meno per il cliente.

E se non ci riuscissimo?

E’ il momento di fermare le danze e far ballare il cliente con un altro partner: un counselor oun altro professionista.

E no, non stiamo abbandonando il cliente: lo stiamo decisamente aiutando.

Condividi questo articolo!

150 visualizzazioni