08/01/2022
Tempo di lettura: 7 min
Se il counselor non fa diagnosi…come e cosa fa?

Visto che abbiamo deciso di dedicare il mese di gennaio alla chiarezza e ad uno sguardo bi-fronte, continuiamo in questa direzione cercando di far comprendere che cosa fa un counselor durante l’esercizio delle sue abilità.
Diagnosi: una parola che compare spesso nelle conversazioni riguardanti il counseling.
La pronunciano i counselor, nel tentativo di differenziarsi da altre professioni, nella frase “noi non facciamo diagnosi” e (giustamente) gli psicologi quando controbattono con il loro “se non fa e non può fare diagnosi come fa a praticare un invio o a comprendere che non può lavorare con un determinato cliente?”
Tutto giustissimo, o meglio, legittimo. Perché a ben guardare tutte e due le parti commettono degli errori. Partiamo da noi counselor: perché continuare a definirci per ciò che non siamo e per ciò che non facciamo? Sembra quasi che non sappiamo nemmeno noi quali sono i nostri ambiti e confini professionali. Chi si definisce partendo dal “io non sono”? Praticamente nessuno, e qui tocca dare ragione agli psicologi.
Ma andiamo dalla parte degli psicologi: la loro affermazione sulla diagnosi risulta sì legittima ma a guardarla è altrettanto fallace. Anche la loro. E dimostra che non sanno effettivamente che cosa fa un counselor (e soprattutto come lo fa) perché danno per scontato tout court che il counseling sia un atto tipico dello psicologo.
Il nostro obiettivo con questo post è fare sì chiarezza ma anche spiegare, vorremmo una volta per tutte, perché il counseling si distingua dall’atto psicologico e la parola diagnosi non centri niente con il counseling stesso.
Che cos’è una diagnosi
Vediamo insieme perché. E come ci piace sempre fare partiamo dalle definizioni. Del resto, gli psicologi non ci rimproverano di definirci per ciò che non siamo? Quindi, usiamole queste definizioni! E sapete qual è esattamente la definizione di diagnosi citando come fonte la Treccani? Ce ne sono ben 3:
In medicina, è un giudizio clinico che consiste nel riconoscere una condizione morbosa in base all’esame clinico del malato, e alle ricerche di laboratorio e strumentali
In botanica e zoologia, la definizione (detta anche frase diagnostica) di una categoria sistematica vegetale o animale (classe, genere, specie, ecc.), dalla quale devono risultare i caratteri differenziali rispetto alle altre categorie.
Per estensione: giudizio con cui si definisce un fenomeno in genere, analizzandone i sintomi e gli aspetti con cui si manifesta.
Notate niente di particolare? Nemmeno con un piccolo sforzo? Vi aiutiamo noi. Tutte e 3 le definizioni richiamano il concetto di riconoscimento, categorizzazione e incasellamento del fenomeno o della condizione in un determinato quadro.
Fare diagnosi significa quindi dare un nome preciso attraverso degli strumenti al fenomeno che stiamo osservando.
Solamente dalla definizione del termine diagnosi (e di conseguenza dell’attività), ci è possibile comprendere che il counselor non solo non può, ma non fa decisamente diagnosi.
Che cosa fa un counselor
Il lavoro del counselor è quello di offrire uno spazio di ascolto ad una persona che necessita di fare chiarezza in una situazione che sta rendendo difficile o complesso il suo agire. Si tratta di una difficoltà transitoria che la persona riuscirebbe a risolvere benissimo da sola e che si deve risolvere in poco tempo. Ecco perché il percorso di counseling dura poco (al massimo 10-12 incontri): in quel (breve) lasso di tempo la persona deve aver trovato una soluzione, deve sapere che cosa e come fare. Quindi non ci sono problemi che si reiterano da tanto tempo sempre secondo gli stessi schemi: già questo è un indice per il counselor per un possibile invio ad altro professionista. E come fa a praticare l’invio?
Ecco la grande rivelazione. Per praticare un invio non devo definire il disturbo, non devo incasellare il fenomeno o il comportamento in un determinato ambito, non devo dargli un nome. Devo semplicemente dire: non sono il professionista corretto. In poche parole: non devo fare una diagnosi. Facciamo degli esempi fuori dal contesto colloquio di counseling.
Un’amica ci dice che da diverso tempo ha un problema alla gola: fatica a deglutire e sente sempre del fastidio. Ha già provato con le caramelle e con qualche altro rimedio della nonna, ha preso delle pastiglie senza ricetta medica in farmacia, ma il disturbo è sempre lì- Che cosa rispondete se non siete medici? Vai da un medico! Quale? Sceglilo tu: il medico di base o direttamente un otorinolaringoiatra. Ti visiterà, farà una diagnosi e ti darà una soluzione. Avete fatto una diagnosi capendo esattamente che tipo di mal di gola è e da cosa è causato? No. Dovete avere conoscenze mediche per fare questo? No. Che cosa vi ha spinto a rispondere così?
Altro esempio: amate tantissimo fare dolci e avete fatto anche dei corsi a livello amatoriale di pasticceria. Pubblicate le vostre creazioni: belle foto, bei dolci seguiti da commenti delle vostre amiche che le hanno assaggiate. Sono tutti entusiastici. Vi contatta una signora che deve organizzare una festa con 1000 invitati e vuole dare a tutti un cupcake. Voi non avete un laboratorio, non avete un’autorizzazione, non avete le attrezzature né le risorse necessarie e una cosa è sfornare 10 cupcakes, un’altra 1000. Che cosa rispondete alla signora? La ringrazio sono lusingata ma le consiglio di contattare un laboratorio di pasticceria, un maestro pasticcere. Avete fatto una diagnosi definendo ingredienti, quantità e procedimenti per sfornare 1000 cupcakes? No. Avete tirato fuori dal cassetto i vostri mestoli e le vostre formine? No. Che cosa vi ha spinto a rispondere così?
Che cos’è l’invio
Come potete comprendere non è necessario fare sempre una diagnosi per capire che il lavoro con un determinato tipo di cliente o di problema non lo possiamo fare. Per praticare un invio, ossia indirizzare un cliente ad altro tipo di professionista, non è necessario individuare di che tipo di disturbo soffre, ma semplicemente dire “non sono io il professionista corretto”.
Il counselor quindi cosa fa? Ascolta, aiuta il cliente attraverso domande e qualche strumento a far sì che il cliente trovi la soluzione, lo segue nell’analisi del problema ma se dall’analisi non esce una soluzione ecologica e utile e il cliente continua a reiterare il suo comportamento, il counselor si ferma perché comprende che è di fronte a qualcosa che non è di sua competenza. Classifica il comportamento disfunzionale? No. Determina la natura del comportamento? No. Ne dà una definizione? No.
Volete un esempio pratico di counseling? Eccolo.
Una madre va da un counselor perché ha problemi di dialogo con la figlia adolescente. Vorrebbe comprendere come comunicare meglio con la ragazza. Il counselor ascolta, pone domande sul modo di comunicare che la madre adotta con la ragazza e le emozioni che prova quando il dialogo si interrompe. Durante l’analisi la mamma si scopre molto incalzante nei confronti della figlia e deduce anche che più diventa incalzante più la figlia si chiude, più la figlia si chiude più lei diventa incalzante fino a che arriva al litigio. La madre la incalza sulle minime cose semplicemente perché vuole che anche le risposte siano date quando lo decide lei e come lo decide lei. Oltre a questo non ci sono altre problematiche. Grazie alle domande del counselor, la madre ipotizza un altro modo di comunicare, un’altra strategia: aspettare i tempi di risposta della figlia. Dopo due o tre incontri e la messa in pratica di questa strategia, la madre dichiara che la comunicazione con la figlia sta migliorando e che riesce a parlare con la ragazza senza che si inneschi la solita discussione. Il lavoro può essere concluso: la madre ha preso consapevolezza del proprio modo di comunicare e l’ha modificato adattandolo alle esigenze della ragazza. E’ un lavoro che fa lo psicologo? Certo che sì, ma lo può fare anche il counselor.
Stessa situazione: mamma con problemi di dialogo con figlia adolescente. Stessi colloqui di cui sopra ma emerge una costante ansia da parte della madre che le impedisce di avere un dialogo costruttivo con la figlia. La madre ci prova a rispettare i tempi della figlia ma non ci riesce perché teme che la figlia non risponda subito perché nasconde qualcosa. La madre teme che la ragazza frequenti brutte compagnie o che si droghi o che racconti bugie. Il comportamento della madre non è suffragato da prove concrete ma la madre è fermamente convinta che sia così e nulla la smuove. Non è più intervento per un counselor: probabilmente il comportamento ansioso della madre nasconde qualcosa di più profondo. Il counselor consiglia un altro professionista. Ha fatto diagnosi? No: non sa qual è la natura del comportamento, non sa il suo nome ma sa che non può ottenere una risposta per far stare meglio la donna.
E’ più chiaro così? Forse sì, forse no. Non abbiamo la pretesa di risolvere una questione che va avanti da anni, ma forse un mattoncino l’abbiamo messo.
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